IL PASSAGGIO AL CIBO SOLIDO: LA GRANDE CONQUISTA DEI NOSTRI BAMBINI (E DI NOI MAMME…)

Abstract

Possiamo chiamarlo Svezzamento, Autosvezzamento, Alimentazione Complementare…. Comunque lo vogliamo “nominare”, il passaggio ai cibi solidi è uno degli argomenti sovrani nelle conversazioni tra mamme durante il primo anno di vita; è un tema che, prima di affrontarlo nel concreto, genera un fremito di insicurezza anche nelle mamme più tranquille e serene. Il presente articolo si propone di toccare questa delicata fase della crescita dei bambini stimolando una riflessione sulle sue implicazioni psicologiche ad ampio raggio, dalle aspettative materne in relazione alla cultura societaria dominante, all’emotività attivata rispetto alla conquista di questa autonomia del bambino, fino ai livelli di ansia e stress che si possono raggiungere quando le cose non vanno esattamente come previsto…

 

 

Recentemente l’Associazione di cui faccio parte ha organizzato presso un locale abbastanza noto della mia città un ciclo di incontri tematici rivolti a donne in gravidanza e neomamme. Niente di nuovo fin qui, ma la particolarità di questi incontri, che hanno riscosso un buon successo ed hanno visto la partecipazione di mamme interessate e propositive, è stata la pluralità di professionalità coinvolte. L’intento era infatti quello di far conoscere alle neomamme una rete professionale presente sul territorio ma che molto spesso non è facile reperire, se non per passaparola. La proposta, anche a detta delle stesse mamme e delle professioniste coinvolte, è stata ricca, varia e fruibile, ma ha presentato una pecca non da poco: mancava totalmente di una proposta relativa all’alimentazione sia dei bambini che delle madri. In due parole , la critica più frequente che noi professioniste abbiamo raccolto è stata: “manca un incontro sullo svezzamento”.

 

Ora, chi familiarizza già con questo tema, sa che ormai il termine SVEZZAMENTO è ormai improprio e desueto, perché rimanda ad un concetto di allattamento al seno come “vizio” dal quale il bambino deve disabituarsi. Oggi sappiamo che l’allattamento al seno è talmente importante per lo sviluppo fisico, cognitivo e psicologico del bambino che “saltiamo sulla sedia” al solo pensiero che possa essere considerato un vizio. L’OMS stessa si pronuncia al riguardo dell’allattamento al seno prendendo una posizione molto chiara e definita, raccomandandolo come fonte di nutrimento esclusiva fino al compimento del 6° mese di vita del bambino, e nella fase di sviluppo successiva è importante che il latte materno rimanga la scelta prioritaria anche dopo l’introduzione di alimenti complementari, fino ai due anni di vita ed oltre, e comunque finché mamma e bambino lo desiderino. Qua sorge già la prima domanda spontanea: c’è qualcosa di diverso all’approccio al cibo solido per le mamme che, per diverse ragioni, allattano artificialmente? questa risposta non può essere liquidata in poche righe, possiamo però affermare con sicurezza che per quanto riguarda le tematiche di questo articolo i diversi tipi di allattamento sono accomunati da molteplici aspetti, primo tra i quali la totale dipendenza del bambino dall’alimentazione parentale, in quanto anche nel caso dell’allattamento con latte artificiale il bambino, per essere nutrito, deve essere sostenuto da un adulto (preferibilmente un genitore) in un abbraccio che rappresenta sia una coccola che un contenimento, e durante il quale avviene quel contatto oculare che consente l’attivazione della funzione di rispecchiamento tanto cara a noi psicologi. Per questo e per tantissimi altri motivi che non andremo ad elencare (in quanto fuorviano dalle intenzioni informative del presente articolo) consideriamo il passaggio al cibo solido altrettanto importante e critico per i bambini allattati al seno e per quelli allattati artificialmente.

 

Tornando alla terminologia più adeguata, diversi pediatri utilizzano da anni il più morbido e meno giudicante “DIVEZZAMENTO”, senza però risolvere il problema del riferimento al “vezzo”. Conflitto in termini che non viene risolto nemmeno dalla recente distinzione tra SVEZZAMENTO CLASSICO ed AUTOSVEZZAMENTO. Abbiamo da qualche tempo risolto la diatriba con l’accezione politically correct “ALIMENTAZIONE COMPLEMENTARE” ma nei bar, nei corridoi dei consultori, nelle sale d’attesa dei pediatri, sottovoce e con sguardo imbarazzato noi mamme ci chiediamo ancora l’una con l’altra: “ma tu come lo farai lo svezzamento?” … quindi, nell’attesa che termini più accattivanti e simpatici prendano piede nel nostro slang, perdoniamoci questa imperfezione linguistica e concentriamoci sul nostro tema, ovvero sugli elementi che concorrono, in ogni mamma ed in ogni bambino, a creare un significato profondo rispetto allo svezz…ehm….all’ alimentazione complementare. Perché vogliamo farlo? Per dare voce ai nostri timori di mamme, ai nostri dubbi ed alle nostre domande, che come vedremo sono intrinsecamente legati tra loro, ma soprattutto perché non si presentino adesso ed in futuro sottoforma di difficoltà e di conflitti nel rapporto con i nostri figli e con noi stesse.

Veniamo al dunque:

 

  1. la paura per la sua salute (che non mangi abbastanza/ che non cresca/ che abbia qualche intolleranza o allergia…)

 

Diciamoci la verità, l’abbiamo pensato (quasi) tutte, e non perché tutte tendiamo all’ansia, ma perché il passaggio al cibo solido avviene proprio quando ci sembra di aver aggiunto una sorta di equilibrio, dopo i primi mesi di sconvolgimento dato dall’arrivo del bebè. Finalmente iniziavamo a capirci qualcosa, a vedere un barlume di quotidianità ed organizzazione nella nostra vita, il bambino cresceva, tante volte dopo aver un po’ “lottato” con noi stesse e con pediatri e consulenti per individuare la modalità di allattamento migliore per nostro figlio… e adesso tocca di rivoluzionare tutto, magari proprio quando incombe la data di ritorno al lavoro. Questa mancanza di sicurezza ci porta a materializzare nella nostra mente il pensiero più angosciante, cioè che il nostro bambino non sia ancora sufficientemente maturo per esplorare questa autonomia, che rifiuti il cibo e che non cresca, che deperisca e si infragilisca. Qualche volta questo timore può anche essere legato ad accaduti nelle prime fasi di accudimento del bambino (ad esempio una scarsa o nulla crescita nelle prime settimane), che sono rimaste impresse nella mente della mamma sottoforma di percepita inadeguatezza a captare i segnali del bambino. Molto più spesso la paura che non mangi o che non cresca col cibo solido altro non è che la normale paura che accompagna ogni nuova esperienza, viene quindi stemperata dopo i primi incerti passi, quando la mamma inizia a prendere confidenza con la preparazione del cibo, i nuovi ritmi e con i segnali di fame e sazietà del bambino.

La paura delle intolleranze e delle allergie è legata al timore dell’esplorazione del “nuovo”, e anche questa viene superata con l’esperienza. Diverso è il caso in cui alla base di tale timore ci sia una storia famigliare di intolleranze e allergie. Questa informazione, se condivisa con i professionisti, può aiutare il pediatra a guidare la mamma ed il bambino nell’esplorazione sicura del cibo.

 

  1. La paura di essere giudicata nelle proprie capacità materne o che venga giudicato “il bambino”

La prima grande domanda che le mamme si sentono fare, parallelamente a “Dorme?” è appunto “Mangia?”, domanda che, se viene seguita da una risposta affermativa, fa seguire un sentenzioso “Che bravo…” come se il dormire ed il mangiare fossero scelte consapevoli del bambino, che egli attiva con volontà in risposta alle sollecitazioni genitoriali. Anche se da tempo immemore sappiamo che non è assolutamente così, e che le manifestazioni dei nostri bambini sono perlopiù istintive ed orientate alla sopravvivenza, una parte di noi, quella che non dorme da mesi, che è messa alla prova dalle nuove sfide quotidiane, che parla da settimane a suoni onomatopeici e non fa un dialogo con un adulto per più di 3 minuti senza essere interrotta da un pianto, in due parole la parte di noi stanca tende a vivere il rifiuto del cibo del bambino come un affronto, un dispetto. La maggior parte delle volte la nostra razionalità ci salva, facendoci venire in mente che ogni bambino ha i suoi tempi e così ogni mamma, e ci vorrà tempo per scoprire questa nuova attività e sintonizzarci; altre volte ci facciamo prendere dallo sconforto, temiamo di non farcela e di essere considerate delle madri inadeguate, incapaci di nutrire la prole, o ancora peggio temiamo che venga giudicato il nostro bambino, che venga considerato un bambino “difficile”. Questa è una paura apparentemente “sociale”, cioè legata al giudizio altrui, in realtà ha più a che fare con l’idea di madre che ci eravamo fatte prima della nascita del bambino, cioè dal conflitto tra la “madre ideale” perfetta presente nella nostra mente e la madre reale che incontra le difficoltà del quotidiano. Più l’ideale di madre è rigido, più questo conflitto genera frustrazione ed insoddisfazione nella neomamma, che tenderà a ripetere azioni fallimentari nel tentativo di raggiungere quella perfezione che apparirà sempre più difficile e lontana, generando sentimenti spiacevoli nella relazione col bambino. Una sana consapevolezza ed un ideale più morbido e malleabile, cioè che si adatta alle difficoltà del quotidiano, permetterà a madre e bambino di darsi tempo per esplorare e conoscere questa nuova competenza e crescere insieme sbagliando e correggendosi. Non avremo quindi la mamma perfetta, ma avremo quella simpatica.

 

  1. Il timore che il bambino non si adatti bene allo stile di alimentazione che abbiamo scelto per lui

 

Abbiamo studiato mesi, letto lo scibile umano sulle proprietà alimentari di ogni cereale o bacca esistente. Sappiamo a memoria tabelle nutrizionali, abbiamo chiesto consulto all’amico gastroenterologo ed alla cugina dietista. Abbiamo consultato tre pediatri con approcci differenti, fatto una sintesi di tutte le informazioni disponibili, siamo followers di otto pagine facebook e instagram in cui si parla di alimentazione neonatale possibilmente bio, ed abbiamo finalmente “deliberato” la tipologia di alimentazione complementare che intenderemo adottare…. Ma ai fatti il nostro bambino sembra preferire quell’omogeneizzato merluzzo e carote pieno di conservanti che abbiamo dato una volta per disperazione ma che non faceva parte del nostro iniziale “piano alimentare”; o, diversamente, abbiamo valutato di aderire ad uno “svezzamento classico”, più confortante ed adatto alle nostre necessità organizzative dato che presto dovremo tornare al lavoro, ma di quella frutta frullata a 4 mesi e mezzo il nostro pargolo non sa proprio che se ne deve fare, e continua per settimane a piangere e sputare pezzettini di mela che continueremo a trovare negli angoli della casa fino al suo diciottesimo compleanno.

Niente panico… come detto prima rispetto alla “madre ideale”, se le nostre idee e scelte saranno eccessivamente rigide, nei casi sopra descritti non potremmo fare altro che provare frustrazione e scoraggiamento ogni qual volta nostro figlio manifesterà un volere in controtendenza col nostro, ma se riusciamo a mettere quell’elasticità necessaria per apportare delle modifiche alle nostre scelte iniziali ascoltando i segnali del bambino, il passaggio al cibo può diventare un’esperienza costruttiva e divertente per tutta la famiglia. A questo scopo ci possono venire in aiuto due riflessioni: la prima è che nostro figlio è istintivamente spinto all’esplorazione e alla sperimentazione. Se non accetta il cibo non è ancora pronto, e conviene aspettare un po’, se invece desidera assaggiare altro rispetto a quello che gli proponiamo, possiamo pensare fare qualche gentile concessione, e qua ci viene incontro la seconda riflessione: anche per noi adulti, non esiste dieta che non preveda una serata “libera”, di pizza e birra per intenderci.

Cambiare idea si può, si deve perché quando parliamo di neofamiglie parliamo di sistemi dinamici coinvolti in velocissime trasformazioni. Un consiglio: diventa importantissima, in questi momenti, la condivisione all’interno della coppia del cambio di prospettiva o anche solo della variazione temporanea di alcune decisioni prese in precedenza. Ricordiamoci che la coppia è una risorsa e, durante il cambiamento, una realtà solida alla quale riferirsi, soprattutto nei momenti di fragilità e sconforto. Inoltre scambiarsi quotidianamente idee e riflessioni sull’accudimento dei bambini consolida la coppia e la fiducia che i partner ripongono l’uno nell’altra, promuove la partecipazione attiva di entrambi i genitori nel compito genitoriale e mantiene viva la complicità tra partner.

 

  1. “Tu non hai mangiato fino ai 4 anni…sono impazzita per darti da mangiare…”

 

Quando ci troviamo in questa fase, siamo più o meno abituate a persone che ci raccontano esperienze agghiaccianti in termini di parto, allattamento, accudimento, sonno, e viene da sé che il cibo non sia certo da meno…. Siamo quindi più o meno abituate a farci scivolare candidamente addosso i tremendi racconti di amiche di amiche, cugine, prozie eccetera… siamo forse un po’ più sensibili quando a fare questi racconti sono le nonne del bambino, ed i protagonisti “bambini difficili” dei racconti siamo proprio noi. Allora viene da sé un recondito timore che il bambino “assomigli a noi” e che il passaggio al cibo sarà un incubo del cui ricordo tutta la famiglia non riuscirà più a sbarazzarsi. Storie come questa sono alla base di moltissime ansie anticipatorie delle neomamme, e meriterebbero un approfondimento a sé per il potere non solo ansiogeno ma anche di distorsione identitaria che generano. L’ho sparata troppo grossa? Pensiamo allora a quanti di noi si sono sentiti dire del “bambino capriccioso – complicato” perché non hanno magari risposto fluidamente alla proposta di svezzamento. Oggi noi abbiamo la fortuna di poter scegliere tra stili di alimentazione complementare differenti, ma ai tempi dei nostri genitori ne esisteva uno, rigido e schematico. Oggi noi sapremmo che un bambino che rifiuta il cibo probabilmente non è ancora pronto, ed aspetteremmo i suoi tempi. Allora questa reazione suscitava allarme ed il bambino veniva ben presto bollato come problematico, forse malato. Dobbiamo perciò ricordarci che la storia non sempre si ripete, anche perché le conoscenze ed il panorama di riferimento culturale è radicalmente cambiato. Adesso vediamo le cose un po’ più dalla prospettiva del bambino, che quindi non ci sembra più capriccioso o problematico, ma solamente “unico”.

 

Perché tutti questi timori attorno a questa fase?

 

Mangiare è vivere. Affermazione ovvia, così tanto che alle volte ci sfugge quanto sia vera a 360 gradi: l’alimentazione è centrale rispetto alla maggior parte degli aspetti della nostra vita. Non solo quindi per sopravvivere, ma è determinante nella cultura, nella vita relazionale, nell’equilibrio famigliare e personale di ognuno di noi. Gli esempi sono numerosi e quotidiani; se vogliamo fare una chiacchierata confidenziale con un amico, lo invitiamo fuori per un caffè o un aperitivo; se stiamo corteggiando qualcuno proponiamo una cena; la nonna si sente gratificata se mangiamo tutto ciò che ci prepara; se vogliamo offrire accoglienza ed ospitalità a un collega forestiero lo invitiamo a mangiare a casa nostra ecc…. Conosciamo anche le implicazioni patologiche legate all’alimentazione, dai problemi di salute connessi ad una alimentazione poco sana alle psicopatologie come i Disturbi del Comportamento Alimentare. A tutto ciò si aggiunge quello che è l’aspetto comune delle possibili difficoltà di cui abbiamo parlato, cioè che il passaggio al cibo solido rappresenta per la famiglia, ed in particolare per la diade madre-bambino, la prima vera grande separazione nella direzione dell’autonomia. Una separazione che anticipa e dà l'impronta a quelle che avverranno in futuro: dal ciuccio, dal pannolino, dalla propria casa quando si tratta ci cominciare l'asilo. Come abbiamo detto inizialmente, con l'allattamento - al seno o al biberon - mamma e bambino hanno vissuto un rapporto molto particolare, fatto di vicinanza fisica, di contatto visivo, di un linguaggio speciale. Introdurre alimenti diversi significa per forza alterare questo rapporto e del resto con questo passaggio cambia tutto: quello che si mangia, ma anche come lo si mangia, con il cucchiaino o le mani, e seduti sul seggiolone anziché in braccio. È normale che questo primo passo verso l'autonomia del piccolo si accompagni alla sensazione di "perdere" qualcosa.

 

Per il bambino, è la perdita di quella soddisfazione totale che provava durante l'allattamento, unita per di più allo spaesamento per il fatto di trovarsi in un mondo nuovo, fatto di sapori, consistenze e regole tutte da scoprire. Per la mamma, la nostalgia per una fase che non tornerà più, come accade per tutte le tappe della crescita. Per tutti e due, un evento che prima aveva solo due “attori protagonisti”, mamma e bambino appunto, e che ora vede l’entrata in scena di “personaggi terzi”: tate, nonni, baby sitter e chiunque si trovi nella situazione di alimentare il bambino.

Dobbiamo ricordarci però che i nostri bambini sono istintivamente spinti al raggiungimento di queste autonomie, così come noi mamme siamo orientate a cercare di cogliere i loro segnali e ad accompagnarli nella crescita. Per questo il concetto di Alimentazione Complementare ci è amico. Complementare al latte, complementare al seno o al biberon, alla coccola, perché l’introduzione al cibo sia un accompagnamento e non un brusco cambiamento. Quindi nuovamente evidenziamo l’importanza di concedersi il lusso di quel tempo per osservarsi, ascoltarsi, sbagliare ed aggiustare il tiro, e se non va bene al primo colpo pensare che quelle che stiamo affrontando sono le difficoltà necessarie a trovare il nostro equilibrio, a costruire quella base sicura (altro concetto molto caro a noi psicologi) che permetterà ai nostri bambini di partire fiduciosi verso l’esplorazione del mondo, sicuri, appunto, che quando ne avranno bisogno potranno ritrovare nella relazione con noi il calore, il conforto ed il sostegno necessari al loro sviluppo. Negli incontri con i genitori, non mi stanco mai di ripetere che gli errori non solo sono inevitabili, ma sono una lezione educativa importantissima per i nostri figli, se noi sappiamo accettarli, affrontarli e modificare le nostre azioni per migliorarci. Per rimanere in tema, “non si può fare una frittata senza rompere qualche uovo “.